Aiuto psicologico: le 3 domande di richiesta di aiuto
L’aiuto psicologico non riguarda solo risolvere problemi o sostenere le persone nella sofferenza, è una relazione che aiuta a ritrovare il benessere, ad esprimere al meglio le proprie possibilità, ad attivare risorse e a far emergere le parti migliori di sè.
Esistono moltissime domande di aiuto psicologico, molto diverse tra di loro, che possono essere raggruppate in tre grandi categorie.
Indice
La domanda di aiuto psicologico di una persona per sé stessa
La domanda individuale di una persona per sé stessa è una quella statisticamente più frequente: un sintomo, delle difficoltà relazionali, un momento di crisi personale, l’elaborazione di un evento traumatico che ha avuto un impatto molto forte sulla propria vita.
Tenendo in considerazione requisiti come l’età e la gravità della situazione, la persona verrà invitata a sostenere un colloquio individuale. Il paziente troverà un professionista orientato dall’ascolto clinico che lo guiderà a dare un senso alla sua sofferenza, collocandola nel suo contesto esistenziale e nelle relazioni che lo trovano implicato nel presente al fine di poter arrivare a delle conclusioni diverse rispetto alle premesse iniziali con le quali la persona si è presentata, che sono fonte di sofferenza. E’ importante che il paziente trovi attraverso l’aiuto psicologico uno sguardo diverso al proprio problema, affinchè possa uscire già dalle prime sedute con una rappresentazione diversa rispetto a quella iniziale. L’obiettivo nel lungo termine sarà quello di trovare un modo di esistere più sano e funzionale.
Lo psicologo, dopo un primo momento di approfondimento, potrà formulare una proposta di lavoro individuale, di coppia o familiare a seconda del tipo di intervento che riterrà più utile ad aiutare il paziente, dandone la motivazione; sarà poi il paziente che sceglierà la modalità che preferisce.
La domanda di un familiare per un altro familiare non richiedente aiuto
La domanda di un familiare per un altro familiare riguarda spesso un figlio verso il quale il genitore nutre una certa preoccupazione, oppure un partner, più raramente un fratello, definiti “malati” o “problematici”, che non sono motivati a chiedere un aiuto e quindi poco collaboranti circa l’idea di rivolgersi ad un esperto.
Bisogna sempre tenere conto che il primo requisito per affrontare un percorso di aiuto psicologico è proprio la motivazione a parteciparvi. Di conseguenza in questi casi, come sottolineano Cirillo, Selvini e Sorrentino, sarebbe un errore convocare la persona da sola, quando non riconosce di avere un problema, quando non è richiedente, cioè non la si può “spedire in terapia”.
In questi casi risulta molto più efficace vedere il ragazzo, o il familiare, insieme ai genitori o a chi ha formulato la richiesta di aiuto.
Nel caso in cui il paziente sia un ragazzo, prendiamo l’atteggiamento ostile dell’adolescente nei confronti della terapia come fondamentalmente sano, in quanto costituisce un attacco alla sua autostima.
A volte i genitori sarebbero per delegare al professionista il figlio adolescente, dando l’impressione di volerlo riparare, a causa di proprie ambivalenze, senso di colpa o incapacità a mettersi in gioco. Questa mossa nei confronti dell’adolescente va evitata. Invitare l’adolescente non richiedente da solo, può risultare patologizzante per lui e risultare una squalifica nei confronti dei genitori, figure che, al contrario, hanno bisogno di essere sostenute e rafforzate.
Parlare insieme della sofferenza rappresenta un’importante condivisione, un momento di appartenenza e di autocritica, molto utile soprattutto in quelle situazioni in cui la fiducia è lacerata, dove i genitori hanno un ruolo molto importante nel sanare questa ferita. Far parlare l’adolescente di fronte ai genitori solitamente è un aspetto che attiva il giovane, lo rende partecipe e collaborante, contemporaneamente all’altro aspetto fondamentale che avviene durante un percorso di aiuto psicologico che è il rafforzamento dei genitori nel loro ruolo di guida.
Quando il paziente è un bambino, i portatori della domanda di aiuto sono i genitori o gli adulti che ne hanno la tutela. Sarà quindi opportuno riservare uno spazio in cui i genitori da soli possano esprimere le loro preoccupazioni, le proprie ipotesi circa l’origine del problema, le proprie ansie e i propri conflitti, in modo che tutto ciò avvenga in assenza dei figli piccoli che potrebbero rimanerne turbati. In quanto datori di cure che richiedono una consulenza, si fanno portatori di una domanda che passerà necessariamente attraverso un lavoro su di loro come persone, in quanto genitori e coniugi. La dimensione è quella dell’alleanza di lavoro al fine di collaborare a sostegno della genitorialità.
A seconda dell’età del bambino, si procederà poi alla sua convocazione e all’ascolto del suo punto di vista valutandone un coinvolgimento più o meno consistente nel percorso di aiuto psicologico.
Quando la richiesta è quella di un familiare per un adulto, che potrebbe essere ad esempio per un partner con delle dipendenze, dei comportamenti delinquenziali oppure con una depressione post-partum, al primo colloquio si invitano entrambi gli interessati cercando di costruire un’alleanza terapeutica con il paziente, alla presenza del coniuge richiedente. Esploreremo in parallelo la storia dei sintomi e della persona, cercando di capire quali sono le situazioni che abbiano indotto tutto ciò nel partner.
La domanda per una relazione problematica
Infine abbiamo la domanda di aiuto psicologico per una relazione definita problematica o conflittuale. La più frequente di questa tipologia è la domanda per la coppia, dove in assenza di una patologia individuale si chiede aiuto per una relazione.
Spesso la richiesta di aiuto nasce dal profondo dolore legato ad uno specifico evento: la scoperta di un tradimento, la lettura di messaggi ambigui sul cellulare, la minaccia dell’uscita di casa. In altre occasioni la domanda racconta di una vita di coppia molto insoddisfacente da tempo. Non c’è un fatto specifico da segnalare ma piuttosto stanchezza, noia, assenza di entusiasmo e passione spesso legate alla mancanza di dialogo, calo della sessualità, delusioni reciproche di fronte ad eventi connessi alla sfera lavorativa, all’arrivo dei figli, alle tensioni con la famiglia di origine. Ingredienti che rendono la relazione un luogo complicato da vivere e difficile da sopportare.
In questo caso il focus sulla relazione motiva ad invitare entrambi i coniugi, anche se uno dei due si tira indietro oppure al contrario vorrebbe essere ascoltato da solo, in cerca di un’alleanza con lo psicologo.
Più raramente la richiesta per una relazione problematica si formula per difficoltà relazionali come quella tra genitori e figli o tra fratelli senza che ci sia un paziente, cioè una persona particolarmente sofferente o con un sintomo. Anche in questo caso il paziente sarà la famiglia, come lo era la coppia, un organismo in cui le relazioni non funzionano più e generano disagio, dolore, a volte violenza. Il sintomo è un conflitto rispetto al quale non si trova via d’uscita.
La richiesta di aiuto psicologico in questo caso può riguardare anche la gestione dei rapporti familiari a seguito di un evento luttuoso e traumatico: una morte inaspettata, la nascita di un bambino con malformazioni o le gestione di una persona disabile. Anche in questi casi sarebbe utile la partecipazione di tutta la famiglia, in modo che possano scendere in campo tutte le risorse disponibili.
BIBLIOGRAFIA
Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A. Entrare in terapia, Le sette porte della terapia sistemica. Raffaello Cortina Editore, Milano (2016)